Sono nata in una terra bellissima, Carolina, il “paradiso delle acque”, una cittadina nello stato del Maranhao, a nord-est del Brasile. Tutto in me racconta le mie origini: la mia pelle scura, in contrasto con il colore degli occhi e i capelli chiari, denuncia il mio essere meticcia; porto dentro di me, nel corpo come nell’anima, qualcosa dei miei avi e della mia terra. Come me, il Brasile è meticcio, al suo interno porta le tracce dei popoli indio, sacrificati alla dominazione dei bianchi, e dei quilombos, famiglie discendenti degli schiavi provenienti dall’Africa. Un miscuglio di razze e di culture che ha dato origine non solo al Samba, al Carnevale e all’allegria del Brasile, ma anche a conflitti e sofferenza. Così sono io: figlia di un nero e di una bianca con anche un po’ di sangue indio. Sono orgogliosa delle mie origini, ma non per questo è sempre stato facile. Dovunque io vada porto in me un qualcosa che denuncia il mio essere “diversa”, nel bene e nel male. Dal Brasile all’Africa, dall’Africa all’Italia, ho dovuto sempre fare i conti con le mie origini.
Ho iniziato a lavorare all’età 16 anni, come segretaria in uno studio medico, ma, nel corso della mia vita non ho mai tralasciato l’espressione artistica in tutte le sue forme, un segno che contraddistinguerà il mio futuro, anche in certa misura quello professionale. Ho preso lezioni di danza jazz ed ho lavorato nella produzione generale della tv Apoio di Brasilia;
ho conosciuto il convento Madre Eugenia Ravasco, dove ho contribuito a creare laboratori di danza per bambini orfani, ed ho svolto attività di volontariato in comunità per anziani e bambini. Successivamente ho ricevuto una proposta di lavoro da parte del governo di Brasilia e, per questo motivo, mi sono trasferita a Rio de Janeiro: qui mi sono iscritta alla Facoltà di psicologia (Università Estacio de SaRebousas) e, nel frattempo, ho lavorato nella segreteria della scienza e tecnologia, svolgendo una ricerca approfondita, vissuta personalmente, sulle comunità dei quilombos nello stato del Maranhao; infine ho partecipato a varie iniziative di carattere socio-educativo e culturale, con particolare riferimento a danza terapia, musicoterapia e teatro.
ho conosciuto il convento Madre Eugenia Ravasco, dove ho contribuito a creare laboratori di danza per bambini orfani, ed ho svolto attività di volontariato in comunità per anziani e bambini. Successivamente ho ricevuto una proposta di lavoro da parte del governo di Brasilia e, per questo motivo, mi sono trasferita a Rio de Janeiro: qui mi sono iscritta alla Facoltà di psicologia (Università Estacio de SaRebousas) e, nel frattempo, ho lavorato nella segreteria della scienza e tecnologia, svolgendo una ricerca approfondita, vissuta personalmente, sulle comunità dei quilombos nello stato del Maranhao; infine ho partecipato a varie iniziative di carattere socio-educativo e culturale, con particolare riferimento a danza terapia, musicoterapia e teatro.
Mentre frequentavo l’Università cercavo di applicare le conoscenze acquisite tramite le attività di volontariato legate ai progetti di recupero ed integrazione di bambini che vivono nelle favelas di Rio de Janeiro, progetti svolti in collaborazione con la parrocchia locale e la Facoltà; ho seguito un primo stage, obbligatorio, presso la clinica della Facoltà e, successivamente, un secondo presso il dipartimento medico della Camera dei deputati. Durante il mio percorso di laurea ho scelto di elaborare la mia tesi sui quilombos.
L’interesse per l’Africa risale alla mia infanzia, alla mia storia ed alle mie origini; infatti, come detto, sono nata nello Stato del Maranhào, ed è proprio qui, ad Alcantara (patrimonio dell’umanità UNESCO), che vive una delle più importanti comunità di quilombos. Per due anni, in collaborazione con il Ministero della scienza e tecnologia, INCRA (Istituto nazionale per la riforma agraria) e con la agenzia aerospaziale, ho svolto uno studio relativo agli aspetti socio-culturali, politici, economici e storici di questa comunità; svolgendo questa ricerca ho potuto capire varie problematiche, legate alla diseguaglianza, all’agricoltura, all’allevamento, alla precarietà dell’assistenza sanitaria, etc. siliana, ho la mia cultura...” |
Ecco cosa conteneva la mia valigia una volta partita dal Brasile per giungere in Italia: un contenitore già ricco di esperienze formative nell’ambito del sociale e della psicologia di comunità ma anche di passione per la “musica del corpo”, ovvero di ciò che in ognuno (anche nel corpo malato) si muove per comunicare quello che spesso le parole non dicono o non possono dire. E, ancora, tanta volontà di apprendere, ma, soprattuto, sul fronte della valigia (come nella mia anima) c’e ra una targhetta ben stampata con scritto: “sono brasiliana",
Il testo di questa canzone brasiliana è significativo del mio viaggio: (testo) http://letras.mus.br/juventude-ilha/1129922/ (video) https://www.youtube.com/watch?v=CDo9yT8eSnc La mia esperienza in Italia ha avuto inizio nel 2004, a Torino, dove sono tornata diverse volte per periodi di circa 3 mesi ciascuno; in questi viaggi ho avuto occasione di visitare varie città e regioni. Qui è cominciata la mia sindrome da spaesamento, che può sintetizzarsi in alcune parole chiave: delusione (per la complessità e la difficoltà dell’incontro con un mondo a me sconosciuto, e in ciò inglobo le diversità alimentari e climatiche), nostalgia (del mio mondo, conosciuto e tutelante), necessità di un “nuovo radicamento” ma senza perdere la mia identità originaria. |
Sullo sfondo: un’immane fatica. Un esempio valga per tutto: il primo giorno di scuola di formazione in psicoterapia un mio docente, Gianni Francesetti, mi ha chiesto come mi chiamavo. Ho preso un po' di tempo per rispondere e ho risposto pronunciandolo all'italiana. Lui mi ha chiesto come mai ci avessi pensato su, come non fosse naturale dire il proprio nome d'istinto. In quel momento mi sono resa conto che nella mia ricerca di adattamento stavo addirittura modificando il mio nome. Gianni mi disse: “tu sei venuta in Italia e devi adattarti alla nostra cultura ma non per questo devi cambiare il tuo nome”. Il mio nome è Ana Rosa. Nella mia madre lingua, la “R” è emessa accompagnandola con un soffio (aspirato, come la h inglese) e quando il mio nome di battesimo era pronunciato “all’italiana” entravo in confusione, non sapevo più chi fossi... in quel momento, grazie all'attenzione di Gianni, mi sono sentita di nuovo me stessa, come dei pezzi di un puzzle che si riuniscono, ho percepito una restituzione della mia identità.
Un aspetto che, sin da subito, mi ha molto impressionato, per dimensioni e differenza rispetto al Brasile, è stato quello legato all’immigrazione ed alla multi etnicità. All’inizio, infatti, faticavo anche a capire quali fossero gli italiani e quali gli stranieri provenienti sia da paesi europei che da altri continenti. E ciò, soprattutto perché non conoscevo la lingua italiana. Eccolo il primo nodo: la lingua, che, a cascata, proponeva una serie di altri problemi, impedimenti comprensibili alcuni, decisamente pretestuosi altri. Ma cerco di fare degli esempi concreti. Se la frequenza di un corso di alfabetizzazione (lavoro che ho vissuto in maniera psicologicamente faticosa per una persona, comunque già laureata), seppur rivolt.o specificamente a stranieri, mi ha permesso di acquisire le prime basi linguistiche, sufficienti per poter dialogare con le persone ad un livello minimo, proprio il flusso di nuove informazioni che mi arrivavano senza soluzione di continuità cominciavano a convincermi del “gap” che, giorno dopo giorno, avrei dovuto affrontare: far fronte alle complesse pratiche inerenti alla richiesta di permesso di soggiorno ed alle scadenze legate ai relativi continui rinnovi; gestire il processo burocratico legato dell’equipollenza della mia laurea; dover ri-frequentare una scuola guida, poiché la conversione della patente automobilistica per tutti i conducenti stranieri in Italia, è possibile solo per i documenti rilasciati dagli stati esteri con i quali l’Italia ha stabilito rapporti di reciprocità...e via discorrendo. Ma la strada, nel solco del mio “riposizionamento” come semplice cittadina nella vita quotidiana del nuovo Paese di accoglienza, nascondeva, al di là delle incombenze di carattere pratico, ambiguità ben più sottili.
La mia formazione professionale, colloquio dopo colloquio con i professionisti interpellati, appariva sempre e comunque insufficiente nel panorama del mercato del lavoro italiano: ciò ha comportato l’iscrizione e la frequenza (e teniamo sempre presente il problema linguistico) al Master di primo livello in “Teoria e tecniche della danza e delle arti performative” e di secondo livello in “Psico-oncologia”, oltre a studi di perfezionamento (di qui l’iscrizione alla quadriennale “Scuola di specializzazione in psicoterapia”), pena l’impossibilità di accesso a qualunque tipo di concorso, riservati questi, generalmente, a cittadini italiani o, comunque, comunitari.
A partire dal marzo 2007 ho vissuto, finalmente, a Torino in maniera stabile e continuativa. Merito di un permesso di soggiorno per motivi di studio, grazie ad un invito dell’Ospedale San Giovanni Battista (Molinette), ottenuto, nel 2006, attraverso il prof. Roberto Navone e il dott. Angelo Barbalonga, per occuparmi di “Bioetica della comunicazione tra medico e pazienti malati di cancro”, per la durata di un anno.
Riuscire a comprendere l’italiano e, gradualmente, parlarlo, mi hanno consentito di vivere anche le prime esperienze lavorative (che, per inciso, talvolta si rivelavano più degli espedienti creativi senza alcuna corresponsione economica che vere occasioni di lavoro), unendo anche le mie competenze non verbali nella comunicazione.
Per esempio, nell’estate del 2007, tra le altre cose, ho lavorato per l’Associazione Alma Mater nell’Estate Ragazzi da loro gestita, ed ho potuto positivamente sperimentare la tecnica del “teatro-danza” come strumento utile per comunicare con bambini e ragazzi provenienti da culture altre.
Questa esperienza ha fatto germogliare in me alcune riflessioni. In una società multi etnica e multi culturale sono inevitabili scontri, conflitti e disagio, ma gli scontri si possono trasformare in incontri, la società si può arricchire attraverso la diversità. Il disagio che si percepisce in questo momento in Europa, così come in Italia, e a Torino, così come in altre città, a causa del problema dell’immigrazione, può diventare un’occasione di crescita e di consapevolezza.
La mia esperienza di vita, come sto cercando di narrare, ben rappresenta il “prodotto di diverse culture” ed assistere spesso ad episodi di discriminazione e diffidenza mi ha portato e mi porta tuttora a riflessioni profonde. Anch’io ne sono stata vittima, ma mi sono sempre difesa, e penso che il mondo della diversità artistica possa essere un aiuto positivo per questa moderna società multietnica, in rapido cambiamento, se lo si vorrà.
Ad ogni buon conto, sono state proprio queste prime esperienze, in cui ho potuto integrare nella pratica la danza, la musica, le mie origini, le mie competenze professionali e le mie passioni, che mi hanno fatto conoscere ed anche, in questo caso con piena consapevolezza da parte mia, instradato verso il Master di “Teoria e tecniche della danza e delle arti performative”.
Questo Master, realizzato dall’Università di Torino - Facoltà di Scienze della Formazione - in collaborazione con la Fondazione Teatro Nuovo per la Danza di Torino, ha permesso di arricchire la mia conoscenza in campo artistico, da un lato, e di convincermi che la mia professione di psicologa, tenuto conto della mia storia, non poteva fare a meno di questo completamento creativo, volto alla ricerca introspettiva del movimento per la nostra esistenza (e quindi essenza), dall’altro: un rinforzo indispensabile - per la sfera terapeutico/riabilitativa e anche educativa (su questo tema ritornerò più avanti) - e che si dimostrava anche un aiuto concreto per mie carenze linguistiche.
Può essere utile, a questo punto, raccontare un aneddoto che è servito a chiarire, “work in progress”, la mia situazione. Durante il Master ho partecipato alla preparazione de “Il Mago di Oz”, spettacolo che mi ha particolarmente colpito.
A rifletterci su, sono molte infatti le analogie rintracciabili tra me e Dorothy (la bimba protagonista del noto romanzo di), a cominciare dal volo che la fa atterrare in un mondo fantastico. Anch’io sono atterrata in questo paese, l’Italia, per molti aspetti fantastico, e che è stata, peraltro la mia prima esperienza al di fuori del Brasile. Una volta atterrata, come Dorothy, mi sentivo un po’ spaventata e perduta, ho percorso un sentiero dorato per correre alla “città di Smeraldo”, ma allo stesso tempo la strada si è rivelata piena di insidie e difficoltà.
Lungo il percorso anch’io fortunatamente ho incontrato tanti amici, con caratteristiche che ci accomunavano e che ci hanno permesso di condividere momenti ed esperienze importanti; tuttavia non sono mancate le difficoltà, le incomprensioni e le intolleranze, ma anche questo mi ha aiutato a crescere e a conoscere meglio questo nuovo mondo.
Dunque, incontri ed esperienze positive, ma anche problemi, difficoltà e conflitti, non ultimo il pregiudizio sessuale. Spesso quello che comunemente viene chiamato razzismo nasce dall’incontro con la diversità e con ciò che non è rapportabile al conosciuto e che quindi genera paura, diffidenza e rifiuto. Ho sentito, nel corso del tempo, sulla mia pelle questa paura e questa diffidenza, ho affrontato le difficoltà della lingua e delle differenze culturali, aiutata dalla convinzione che solo accettando e studiando la diversità, si può vincere la paura.
Ma, per comunicare, sono necessari degli strumenti: i miei sono stati la mia “musica” interiore, la mia passione per la danza e per l’arte. L’arte mi ha permesso di comunicare in modo diretto e immediato, a diversi livelli e in diversi contesti culturali, in quanto, a differenza della parola, essa non è collegata ad un solo codice o ad un tipo specifico di educazione, ed è, quindi, un mezzo di espressione ideale in paesi in cui coesistono dialetti, lingue e culture diverse.
Attraverso l’arte si sublima la comunicazione, si crea uno scenario che genera il tessuto connettivo che integra i conflitti e le differenze. E, a proposito di danza - l’arte che più è vicina e che riflette la mia storia personale – occorre dire che ogni cultura la rappresenta a modo suo, attribuendo poi significati e simbologie spesso molto diversi tra loro. Io penso che l’Arte debba appartenere a tutti, e che si debba superare l’idea che la stessa sia solo di chi ha talento.
Nella mia esperienza di psicologa ho sempre pensato che lavorare solo con la parola fosse un'opzione decisamente limitata se relazionata ad un universo e ad un campo molto vasto in cui agire. Operando con la complicità di corpo e mente sono riuscita (e riesco) ad agire in un contesto molto grande il quale, senza questa modalità d’azione, risulterebbe difficile comprendere e misurare. In questo contesto, il corpo è utilizzato come Lyman Frank Baum strumento di consapevolezza, di crescita e di accettazione. La gestualità (e, a questo proposito, invito a pensare alla “creatività” gestuale dei brasiliani e come essa è vissuta nell’immaginario collettivo), utilizzata nella comunicazione non verbale, ci permette di capire cosa sente il corpo, perché il corpo spesso prende il posto della parola, parlando per essa: in questo caso il gesto predomina, attraverso ritmi forti, lenti, rapidi, e ad ogni intensità il corpo segue un ordine, occupando il tempo e lo spazio. Il gesto, infatti, non è necessariamente rappresentato da movimenti ampi o prolungati, anche un semplice sguardo o una normale azione, possono trasformarsi in danza: asciugarsi il viso, ad esempio; e quando poi questa quotidiana abitudine viene fatta da un gruppo di persone si può arrivare ad una coreografia. Quindi piccoli movimenti permettono un migliore utilizzo del nostro corpo, con maggiore coscienza e consapevolezza di ciò che accade; in questo senso, lo studio del movimento aiuta molto nello sviluppo della nostra personalità, è molto importante in vari contesti della nostra vita ed in particolare nella fase della nostra crescita. E, proprio in questo senso è promotore di fiducia, aiutando ad abbandonare il pensiero dell’ «io, non posso...» tramutandolo in «Io lo posso fare!».
Nella mia esperienza personale ho potuto constatare quanto sia fondamentale riscoprire le capacità e le potenzialità nascoste di ognuno di noi, senza proporre necessariamente corsi professionali di danza o di altre forme artistiche, ma partendo da semplici attività che, con un lavoro ed una preparazione intenzionale, offrano alle persone la possibilità di esprimersi, anche se non si parla la stessa lingua. L’arte può raggiungere chiunque: come una spugna che assorbe l’acqua per poi trasferirla altrove, così l’uomo riceve degli stimoli per produrre l’arte attraverso di sé e comunicarla agli altri. L’arte può raggiungere chiunque, sì, anche le persone malate di cancro, soggette a quella tremenda perdita del riferimento corporeo che si trovano a vivere quando sulla loro strada incontrano interventi di mutilazione di qualche parte del corpo e/o sono in prossimità della morte. Il mio obiettivo centrale, attraverso il lavoro sulle emozioni e sulle percezioni, è stato sempre quello di elevare il malessere o la malattia ad un'opportunità di accrescimento personale. Credo che attraverso questo genere di terapia - ma mi rendo conto che il tema avrebbe bisogno di ben altro approfondimento, aspetto che il contesto del presente contributo non può affrontare - si possa riacquistare l'equilibrio, la soddisfazione e il piacere di continuare soprattutto a vivere.
Ho scritto di me, del mio Paese, della mia complessità. Non so se sono riuscita a esprimere tutto quello che avrei voluto, anche perché comunicare in una lingua diversa dalla propria non è facile e, a riprova di ciò, è davvero paradossale confessare che adesso, dopo otto anni in Italia, trovo difficile parlare fluidamente il mio portoghese. Vorrei sottolineare ancora che l’espressione, attraverso l’arte - che è stata così importante per me, un’ancora salvifica che mi ha aiutata a risolvere problemi e difficoltà -, può essere una delle strade per risolvere una parte dei problemi del mondo. Anche senza le ali, ho volato moltissimo, ho viaggiato con il corpo e con la mente, fisicamente e virtualmente: ho viaggiato in internet, ho usato le tecnologie che mi hanno permesso di stare in contatto con persone lontane. Ho dovuto far volare il pensiero, ho incontrato frontiere e ho dovuto superare i miei stessi limiti per abbattere molti muri e barriere. E, se è vero, come dice M. Mc. Luhan, che “Ogni comunicazione si significa in relazione ad uno sfondo”, allora è importante capire “il mio sfondo”.
Alla fine di tutto questo percorso di ricerca di me stessa, è capitato un episodio che porto con me come parte della mia identità. Durante un week-end di formazione della Scuola di Psicoterapia della Gestalt lamentavo la mancanza che sentivo così forte della mia famiglia brasiliana; mi sentivo sola, senza un punto di riferimento, come una bambina. In quella situazione, la mia formatrice, Hilda Courtney, chiese di sdraiarmi per terra e a tutti i miei compagni del gruppo di stare intorno a me, per costruire una “culla umana” con le loro mani. Quando il mio corpo risultò totalmente abbandonato, cominciarono a cullarmi, a dondolarmi dolcemente; fu a quel punto che Hilda mi chiese di guardare e vedere che non ero più sola. Dopo un iniziale imbarazzo, cominciai a piangere e a guardare ognuno di loro. Sentivo che veramente non ero sola, non ero più sola...e, ancora oggi, riconosco in quei miei compagni una parte fondamentale della mia famiglia in Italia.
In conclusione, vorrei esprimere quello che considero il mio progetto di vita e di lavoro. Credo, a questo proposito, che la mia storia personale e professionale possa forse suggerire una strada per la collettività, rappresentare l’esempio concreto di come il “performativo” possa essere un potente strumento di comunicazione che supera le barriere linguistiche e culturali, di come l’arte possa essere la maschera che appiana le differenze e risolve i conflitti. Il mio percorso professionale, come ho cercato di evidenziare in più punti di questo scritto, nasce dalla mia storia e da quella del mio Paese, si confronta con altri Paesi, con altre esperienze e con altri professionisti, per riuscire ad esprimersi, a raccontarsi e a rappresentare un esempio di integrazione culturale, di comunicazione totale, di tentativo di risoluzione. E allora eccola la mia stella polare, la mia mission: “stimolare in tutti i modi e con tutta la forza possibile dei codici artistici un’atmosfera che porti con sé il profumo del cambiamento”, un contesto nel quale avere l’occasione di conoscere il nuovo e il “diverso” da sé. Si tratta di una finalità che porta il segno di una sapienza antica e dell’aiuto vero. Si tratta di attivare una capacità di ascolto, soprattutto da parte di chi, anche nella difficoltà di linguaggio ed integrazione, può donare tutto quello che ha di bello dentro di sé e del proprio Paese d’origine, ovvero di un patrimonio culturale sempre unico e originale. Uno scambio culturale, quindi, autentico ed una visione della differenza intesa come elemento di crescita e ricchezza personale e sociale reciproca...in “un mondo senza frontiere”. Si può!
Un aspetto che, sin da subito, mi ha molto impressionato, per dimensioni e differenza rispetto al Brasile, è stato quello legato all’immigrazione ed alla multi etnicità. All’inizio, infatti, faticavo anche a capire quali fossero gli italiani e quali gli stranieri provenienti sia da paesi europei che da altri continenti. E ciò, soprattutto perché non conoscevo la lingua italiana. Eccolo il primo nodo: la lingua, che, a cascata, proponeva una serie di altri problemi, impedimenti comprensibili alcuni, decisamente pretestuosi altri. Ma cerco di fare degli esempi concreti. Se la frequenza di un corso di alfabetizzazione (lavoro che ho vissuto in maniera psicologicamente faticosa per una persona, comunque già laureata), seppur rivolt.o specificamente a stranieri, mi ha permesso di acquisire le prime basi linguistiche, sufficienti per poter dialogare con le persone ad un livello minimo, proprio il flusso di nuove informazioni che mi arrivavano senza soluzione di continuità cominciavano a convincermi del “gap” che, giorno dopo giorno, avrei dovuto affrontare: far fronte alle complesse pratiche inerenti alla richiesta di permesso di soggiorno ed alle scadenze legate ai relativi continui rinnovi; gestire il processo burocratico legato dell’equipollenza della mia laurea; dover ri-frequentare una scuola guida, poiché la conversione della patente automobilistica per tutti i conducenti stranieri in Italia, è possibile solo per i documenti rilasciati dagli stati esteri con i quali l’Italia ha stabilito rapporti di reciprocità...e via discorrendo. Ma la strada, nel solco del mio “riposizionamento” come semplice cittadina nella vita quotidiana del nuovo Paese di accoglienza, nascondeva, al di là delle incombenze di carattere pratico, ambiguità ben più sottili.
La mia formazione professionale, colloquio dopo colloquio con i professionisti interpellati, appariva sempre e comunque insufficiente nel panorama del mercato del lavoro italiano: ciò ha comportato l’iscrizione e la frequenza (e teniamo sempre presente il problema linguistico) al Master di primo livello in “Teoria e tecniche della danza e delle arti performative” e di secondo livello in “Psico-oncologia”, oltre a studi di perfezionamento (di qui l’iscrizione alla quadriennale “Scuola di specializzazione in psicoterapia”), pena l’impossibilità di accesso a qualunque tipo di concorso, riservati questi, generalmente, a cittadini italiani o, comunque, comunitari.
A partire dal marzo 2007 ho vissuto, finalmente, a Torino in maniera stabile e continuativa. Merito di un permesso di soggiorno per motivi di studio, grazie ad un invito dell’Ospedale San Giovanni Battista (Molinette), ottenuto, nel 2006, attraverso il prof. Roberto Navone e il dott. Angelo Barbalonga, per occuparmi di “Bioetica della comunicazione tra medico e pazienti malati di cancro”, per la durata di un anno.
Riuscire a comprendere l’italiano e, gradualmente, parlarlo, mi hanno consentito di vivere anche le prime esperienze lavorative (che, per inciso, talvolta si rivelavano più degli espedienti creativi senza alcuna corresponsione economica che vere occasioni di lavoro), unendo anche le mie competenze non verbali nella comunicazione.
Per esempio, nell’estate del 2007, tra le altre cose, ho lavorato per l’Associazione Alma Mater nell’Estate Ragazzi da loro gestita, ed ho potuto positivamente sperimentare la tecnica del “teatro-danza” come strumento utile per comunicare con bambini e ragazzi provenienti da culture altre.
Questa esperienza ha fatto germogliare in me alcune riflessioni. In una società multi etnica e multi culturale sono inevitabili scontri, conflitti e disagio, ma gli scontri si possono trasformare in incontri, la società si può arricchire attraverso la diversità. Il disagio che si percepisce in questo momento in Europa, così come in Italia, e a Torino, così come in altre città, a causa del problema dell’immigrazione, può diventare un’occasione di crescita e di consapevolezza.
La mia esperienza di vita, come sto cercando di narrare, ben rappresenta il “prodotto di diverse culture” ed assistere spesso ad episodi di discriminazione e diffidenza mi ha portato e mi porta tuttora a riflessioni profonde. Anch’io ne sono stata vittima, ma mi sono sempre difesa, e penso che il mondo della diversità artistica possa essere un aiuto positivo per questa moderna società multietnica, in rapido cambiamento, se lo si vorrà.
Ad ogni buon conto, sono state proprio queste prime esperienze, in cui ho potuto integrare nella pratica la danza, la musica, le mie origini, le mie competenze professionali e le mie passioni, che mi hanno fatto conoscere ed anche, in questo caso con piena consapevolezza da parte mia, instradato verso il Master di “Teoria e tecniche della danza e delle arti performative”.
Questo Master, realizzato dall’Università di Torino - Facoltà di Scienze della Formazione - in collaborazione con la Fondazione Teatro Nuovo per la Danza di Torino, ha permesso di arricchire la mia conoscenza in campo artistico, da un lato, e di convincermi che la mia professione di psicologa, tenuto conto della mia storia, non poteva fare a meno di questo completamento creativo, volto alla ricerca introspettiva del movimento per la nostra esistenza (e quindi essenza), dall’altro: un rinforzo indispensabile - per la sfera terapeutico/riabilitativa e anche educativa (su questo tema ritornerò più avanti) - e che si dimostrava anche un aiuto concreto per mie carenze linguistiche.
Può essere utile, a questo punto, raccontare un aneddoto che è servito a chiarire, “work in progress”, la mia situazione. Durante il Master ho partecipato alla preparazione de “Il Mago di Oz”, spettacolo che mi ha particolarmente colpito.
A rifletterci su, sono molte infatti le analogie rintracciabili tra me e Dorothy (la bimba protagonista del noto romanzo di), a cominciare dal volo che la fa atterrare in un mondo fantastico. Anch’io sono atterrata in questo paese, l’Italia, per molti aspetti fantastico, e che è stata, peraltro la mia prima esperienza al di fuori del Brasile. Una volta atterrata, come Dorothy, mi sentivo un po’ spaventata e perduta, ho percorso un sentiero dorato per correre alla “città di Smeraldo”, ma allo stesso tempo la strada si è rivelata piena di insidie e difficoltà.
Lungo il percorso anch’io fortunatamente ho incontrato tanti amici, con caratteristiche che ci accomunavano e che ci hanno permesso di condividere momenti ed esperienze importanti; tuttavia non sono mancate le difficoltà, le incomprensioni e le intolleranze, ma anche questo mi ha aiutato a crescere e a conoscere meglio questo nuovo mondo.
Dunque, incontri ed esperienze positive, ma anche problemi, difficoltà e conflitti, non ultimo il pregiudizio sessuale. Spesso quello che comunemente viene chiamato razzismo nasce dall’incontro con la diversità e con ciò che non è rapportabile al conosciuto e che quindi genera paura, diffidenza e rifiuto. Ho sentito, nel corso del tempo, sulla mia pelle questa paura e questa diffidenza, ho affrontato le difficoltà della lingua e delle differenze culturali, aiutata dalla convinzione che solo accettando e studiando la diversità, si può vincere la paura.
Ma, per comunicare, sono necessari degli strumenti: i miei sono stati la mia “musica” interiore, la mia passione per la danza e per l’arte. L’arte mi ha permesso di comunicare in modo diretto e immediato, a diversi livelli e in diversi contesti culturali, in quanto, a differenza della parola, essa non è collegata ad un solo codice o ad un tipo specifico di educazione, ed è, quindi, un mezzo di espressione ideale in paesi in cui coesistono dialetti, lingue e culture diverse.
Attraverso l’arte si sublima la comunicazione, si crea uno scenario che genera il tessuto connettivo che integra i conflitti e le differenze. E, a proposito di danza - l’arte che più è vicina e che riflette la mia storia personale – occorre dire che ogni cultura la rappresenta a modo suo, attribuendo poi significati e simbologie spesso molto diversi tra loro. Io penso che l’Arte debba appartenere a tutti, e che si debba superare l’idea che la stessa sia solo di chi ha talento.
Nella mia esperienza di psicologa ho sempre pensato che lavorare solo con la parola fosse un'opzione decisamente limitata se relazionata ad un universo e ad un campo molto vasto in cui agire. Operando con la complicità di corpo e mente sono riuscita (e riesco) ad agire in un contesto molto grande il quale, senza questa modalità d’azione, risulterebbe difficile comprendere e misurare. In questo contesto, il corpo è utilizzato come Lyman Frank Baum strumento di consapevolezza, di crescita e di accettazione. La gestualità (e, a questo proposito, invito a pensare alla “creatività” gestuale dei brasiliani e come essa è vissuta nell’immaginario collettivo), utilizzata nella comunicazione non verbale, ci permette di capire cosa sente il corpo, perché il corpo spesso prende il posto della parola, parlando per essa: in questo caso il gesto predomina, attraverso ritmi forti, lenti, rapidi, e ad ogni intensità il corpo segue un ordine, occupando il tempo e lo spazio. Il gesto, infatti, non è necessariamente rappresentato da movimenti ampi o prolungati, anche un semplice sguardo o una normale azione, possono trasformarsi in danza: asciugarsi il viso, ad esempio; e quando poi questa quotidiana abitudine viene fatta da un gruppo di persone si può arrivare ad una coreografia. Quindi piccoli movimenti permettono un migliore utilizzo del nostro corpo, con maggiore coscienza e consapevolezza di ciò che accade; in questo senso, lo studio del movimento aiuta molto nello sviluppo della nostra personalità, è molto importante in vari contesti della nostra vita ed in particolare nella fase della nostra crescita. E, proprio in questo senso è promotore di fiducia, aiutando ad abbandonare il pensiero dell’ «io, non posso...» tramutandolo in «Io lo posso fare!».
Nella mia esperienza personale ho potuto constatare quanto sia fondamentale riscoprire le capacità e le potenzialità nascoste di ognuno di noi, senza proporre necessariamente corsi professionali di danza o di altre forme artistiche, ma partendo da semplici attività che, con un lavoro ed una preparazione intenzionale, offrano alle persone la possibilità di esprimersi, anche se non si parla la stessa lingua. L’arte può raggiungere chiunque: come una spugna che assorbe l’acqua per poi trasferirla altrove, così l’uomo riceve degli stimoli per produrre l’arte attraverso di sé e comunicarla agli altri. L’arte può raggiungere chiunque, sì, anche le persone malate di cancro, soggette a quella tremenda perdita del riferimento corporeo che si trovano a vivere quando sulla loro strada incontrano interventi di mutilazione di qualche parte del corpo e/o sono in prossimità della morte. Il mio obiettivo centrale, attraverso il lavoro sulle emozioni e sulle percezioni, è stato sempre quello di elevare il malessere o la malattia ad un'opportunità di accrescimento personale. Credo che attraverso questo genere di terapia - ma mi rendo conto che il tema avrebbe bisogno di ben altro approfondimento, aspetto che il contesto del presente contributo non può affrontare - si possa riacquistare l'equilibrio, la soddisfazione e il piacere di continuare soprattutto a vivere.
Ho scritto di me, del mio Paese, della mia complessità. Non so se sono riuscita a esprimere tutto quello che avrei voluto, anche perché comunicare in una lingua diversa dalla propria non è facile e, a riprova di ciò, è davvero paradossale confessare che adesso, dopo otto anni in Italia, trovo difficile parlare fluidamente il mio portoghese. Vorrei sottolineare ancora che l’espressione, attraverso l’arte - che è stata così importante per me, un’ancora salvifica che mi ha aiutata a risolvere problemi e difficoltà -, può essere una delle strade per risolvere una parte dei problemi del mondo. Anche senza le ali, ho volato moltissimo, ho viaggiato con il corpo e con la mente, fisicamente e virtualmente: ho viaggiato in internet, ho usato le tecnologie che mi hanno permesso di stare in contatto con persone lontane. Ho dovuto far volare il pensiero, ho incontrato frontiere e ho dovuto superare i miei stessi limiti per abbattere molti muri e barriere. E, se è vero, come dice M. Mc. Luhan, che “Ogni comunicazione si significa in relazione ad uno sfondo”, allora è importante capire “il mio sfondo”.
Alla fine di tutto questo percorso di ricerca di me stessa, è capitato un episodio che porto con me come parte della mia identità. Durante un week-end di formazione della Scuola di Psicoterapia della Gestalt lamentavo la mancanza che sentivo così forte della mia famiglia brasiliana; mi sentivo sola, senza un punto di riferimento, come una bambina. In quella situazione, la mia formatrice, Hilda Courtney, chiese di sdraiarmi per terra e a tutti i miei compagni del gruppo di stare intorno a me, per costruire una “culla umana” con le loro mani. Quando il mio corpo risultò totalmente abbandonato, cominciarono a cullarmi, a dondolarmi dolcemente; fu a quel punto che Hilda mi chiese di guardare e vedere che non ero più sola. Dopo un iniziale imbarazzo, cominciai a piangere e a guardare ognuno di loro. Sentivo che veramente non ero sola, non ero più sola...e, ancora oggi, riconosco in quei miei compagni una parte fondamentale della mia famiglia in Italia.
In conclusione, vorrei esprimere quello che considero il mio progetto di vita e di lavoro. Credo, a questo proposito, che la mia storia personale e professionale possa forse suggerire una strada per la collettività, rappresentare l’esempio concreto di come il “performativo” possa essere un potente strumento di comunicazione che supera le barriere linguistiche e culturali, di come l’arte possa essere la maschera che appiana le differenze e risolve i conflitti. Il mio percorso professionale, come ho cercato di evidenziare in più punti di questo scritto, nasce dalla mia storia e da quella del mio Paese, si confronta con altri Paesi, con altre esperienze e con altri professionisti, per riuscire ad esprimersi, a raccontarsi e a rappresentare un esempio di integrazione culturale, di comunicazione totale, di tentativo di risoluzione. E allora eccola la mia stella polare, la mia mission: “stimolare in tutti i modi e con tutta la forza possibile dei codici artistici un’atmosfera che porti con sé il profumo del cambiamento”, un contesto nel quale avere l’occasione di conoscere il nuovo e il “diverso” da sé. Si tratta di una finalità che porta il segno di una sapienza antica e dell’aiuto vero. Si tratta di attivare una capacità di ascolto, soprattutto da parte di chi, anche nella difficoltà di linguaggio ed integrazione, può donare tutto quello che ha di bello dentro di sé e del proprio Paese d’origine, ovvero di un patrimonio culturale sempre unico e originale. Uno scambio culturale, quindi, autentico ed una visione della differenza intesa come elemento di crescita e ricchezza personale e sociale reciproca...in “un mondo senza frontiere”. Si può!
Ana Rosa Ferreira Ramos è psicologa e psicoterapeuta, specializzata in Gestalt Therapy e Psico-oncologia.