Fascio di luce.
Premio Speciale Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Un’immagine pulita, ordinata, essenziale. Eppure, nella sua semplicità, questa fotografia è capace di evocare nello spettatore altre immagini: il fascio di luce diventa infatti una sorta di tappeto volante per altri mondi e nuove visioni, reso ancora più importante dalla sacralità dell’ambiente. La luce, rivelatrice per l’uomo è, non dimentichiamolo, fondamentale per la fotografia, che appare sul foglio di carta proprio grazie ad essa».
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AL Otro lado del rìo*
Nella cultura colombiana, guayabo è il nome proprio di un albero che produce un frutto dal profumo intenso e inconfondibile. Tanto che il nobel García Marquéz diceva che il tropico intero profumasse di “guayaba”. La stessa parola, viene usata anche per denominare i postumi di una “sbronza triste”. A me, però, interessa ancora un'altra sfumatura del termine guayabo, quando viene utilizzato come nostalgia. Essere alla ricerca del caldo focolare o di un passato migliore che si vorrebbe ritrovare; coccolarsi nel ricordo degli effluvi di una pietanza; una sensazione di non essere veramente a "casa". L'immigrato conosce bene le gradazioni del guayabo! Il rifugiato ne conosce addirittura un intero repertorio. Migliaia di profughi di guerra e di conflitti armati che devono lasciare le proprie terre e abbandonarle senza un progetto, distinguono ampiamente il profondo spaesamento che comporta perdere averi, abitudini, certezze, legami e luoghi ove si è cresciuti e riconosciuti, in definitiva tutto ciò che ha dato loro un significato alla vita.
La Colombia ha dato un senso profondo a una parte della mia esistenza. Una nazione che possiede una delle biodiversità più importanti del pianeta, ma che purtroppo è anche uno dei paesi più violenti del mondo. Narcotraffico, guerriglia e paramilitari all'ordine del giorno. Sfarzo ed opulenza a pochi passi da baraccopoli stracolme di desplazados2. Decenni di governi fantoccio che si mangiano le risorse naturali ed economiche anziché abolire le forte disparità interne. Un popolo abbagliato dal consumismo (made in USA), che ha paura di eleggere governanti autorevoli anziché autoritari. Sono nata a Bogotà. Città caotica e labirintica di quasi otto milioni di abitanti. Un altopiano che prima della conquista spagnola era una sorta di grande palude considerata dai Muiscas3 territorio sacro, ma considerata all'arrivo dei conquistadores come un luogo pestilenziale che venne disboscato per creare suoli coltivabili da cui ricavare legname da costruzione o da ardere ed infine bonificato grazie all'introduzione di grandi quantità di eucaliptus australiani. Tocco finale fu l'estirpazione delle distese di Noci da parte dei missionari, perché alberi sacri dei Muiscas quindi considerati nemici della religione in arrivo. Forse che la conquista abbia lasciato in noi tracce di “sradicamento”? Comunque sia stato, dopo seicento anni, in Colombia la nostalgia ha il nome di un albero! Qualche anno addietro, conoscevo una forma di guayabo al contrario: la nostalgia di “non” essere in viaggio. Ho sempre desiderato condividere esperienze con altri popoli, sentendone i profumi, impadronendomi di nuovi paesaggi, ascoltando racconti e storie di donne antiche, toccando la terra con le mie mani. Si potrebbe trattare di una continua ricerca del caldo focolare. “Una donna alla ricerca del suo ultimo bosco” scrive la scrittrice cilena Marcela Serrano nel suo libro “Antigua vita mia”. I miei viaggi giovanili prediligevano parchi naturali e riserve della mia terra poco frequentati, e non ancora occupati dalla mafia. Rifiutavo la sicurezza delle vacanze organizzate quindi cercavo posti silenziosi e isolati dove ho appreso la differenza tra “viaggiante” e “turista”. Godevo dunque nel visitare la foresta amazzonica, luogo da scoprire con paziente attesa. Entusiasta, percorrevo in canoa alcune diramazioni del fiume, per vedere delfini rosa confetto e Manatí 4 o magari per raggiungere villaggi brulicanti di bambini dallo sguardo guardingo. Un altro territorio a cui ero affezionata era la Penisola della Guajira, il luogo più a nord della Colombia sulle coste caraibiche. Territorio di sabbia rossiccia ospitante comunità etniche Wayuu, contraddistinte da un'aura di mistero e saggezza. Uomini e donne maestri dell'arte del tessere fibre naturali, per ornare e intrecciare oggetti decorativi e di uso domestico quali borse, amache e reti da pesca; manufatti che richiedono dai 20 giorni ai sei mesi di lavoro e la cui tradizione conserva una parte preziosa della loro idea del cosmo. Infine frequentavo con gioia le spiagge solitarie e selvagge del Pacifico, dove era facile accordarsi 1 2 3 4 Dall'altra parte del fiume.(Titolo della Canzone scritta da Jorge Drexler per il film “I diari della motocicletta”) Sfollati. Spesso profughi di guerra. Civiltà incontrata dagli spagnoli nella regione centrale della Colombia nel 1537. Lamantini amazzonici. Mammiferi acquatici erbivori appartenenti al genere Trichecus pigmeus.con una famiglia della zona: a cambio di lezioni, potevo mangiare pesce e patacón5 e appendere la mia amaca tra due palme, alloggiando sotto una specie di tettuccio costruito con fogliame. Al posto di un albergo “cinque stelle”, contemplavo nei mesi tersi “tutte le stelle”, cullata dal canto delle megattere che migrano in acque tropicali per accoppiarsi o per partorire. Arrivavo lì dopo viaggi di 28 ore su uno scomodo peschereccio, sapendo che all'arrivo sarei stata ripagata dalla visione delle maree, quelle ampie masse d'acqua che si abbassano lasciando un tappeto esteso e pulito che mano a mano si ricopre di miriadi di granchi viola/arancio. In quei viaggi nuotavo con delfini e facevo il bagno in pozze d'acqua dolce circondata da colibrì verde e blu. Territori oramai occupati dagli uomini della guerra. Polmoni del mondo colpiti gravemente dai cambiamenti climatici e dalla deforestazione! Vogliosa di una nuova avventura, nel 2005 decisi di partire per l'Italia. Ho lavorato per anni a Bogotà in una scuola italiana parificata quindi avevo potuto intraprendere prima, alcuni viaggi di ricognizione del nuovo territorio grazie a colleghi di lavoro che, nei mesi estivi, mi ospitavano nelle loro case di origine. E ho finito per idealizzarla! Come non vivere in un paese dove dentro il cortile di casa trovi vestigia di popoli antichi! Un posto in cui sembra che i libri siano per la gente il pane quotidiano; insomma: un possibile ultimo bosco! Così iniziai la mia esperienza “dall'altra parte del río”, anzi dall'altra parte dell'oceano. E per anni ho vissuto sulla mia pelle cosa vuol dire perdere certezze, rapporti e luoghi ove si è conosciuti e riconosciuti! Quanta ragione ha la piemontese Marisa Fenoglio quando afferma, nel suo libro “Vivere altrove”, che “nessun emigrato conosce la portata del suo passo”! Per fortuna negli anni, ho trovato persone meravigliose che mi hanno fatto sentire parte di una comunità e che hanno contribuito alla mia crescita personale. Ed ho svolto attività dove ho potuto sfiorare “la materia” delle mie idealizzazioni. Tuttavia, in questi anni, tante volte mi sono sentita sconfitta, scoraggiata, senza strumenti. In particolar modo dal punto di vista professionale e lavorativo. In mezzo a questo precariato che mi coglie negli anni più produttivi della mia vita! “Con la cultura non si mangia” dichiarava il Ministro dell'economia Tremonti nel 2010. Peccato però che la cultura intesa come conoscenza, ricerca e formazione sia il rilancio e la fonte di cambiamento economico, sociale e civile di un Paese. Basti vedere l'Uruguay di José Mujica. Ho dovuto accettare l'idea che l'Italia è un luogo antico, ricucito e rattoppato provvisoriamente; un monumento che non ha la forza di reggersi da solo. Pompei sta crollando e questa volta non è colpa del Vesuvio! Il mio soggiorno italiano dura ormai da nove anni perciò a questo punto anch'io ho conosciuto tutti i fastelli del guayabo. “Nostalgia è l'unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro”, proclama il protagonista del premiato film “La Grande Bellezza” diretto da Sorrentino. Di conseguenza devo nutrire il mio risveglio di sorrisi, sguardi, parole e abbracci; mi reggo grazie alle mie radici di “guayabo”. Grazie alla vitalità e solidità che mi conferiscono le montagne che ho visto da quando sono nata e quelle che incorniciano ora le mie giornate Torinesi. Incarno la fluidità e la portata del Po e del grande Río amazzonico. Non posso ancora sapere se la Colombia sarà il mio ultimo bosco; non so nemmeno se l'Italia lo possa essere! Penso però, parafrasando lo scrittore Eduardo Galeano che: “ne al partire, ne al rimanere, ne al ritornare, avremmo dimenticato; invece avremmo due memorie, due patrie; in qualunque caso una grande ricchezza e un grande tesoro”. Penso alle cordigliere, alle dune del deserto, ai ghiacciai. Evoco i solchi d'acqua, i canyon, le scogliere. Mi sovvengono il volto rugoso di un anziano o le grinze delicate del piede di un bambino appena nato; le mani delle scimmie, il carapace delle testuggini, le squame di un'iguana. E che dire della corteccia degli alberi!.....Siamo tutti fatti dello stesso impasto: monumenti orditi e nostalgici. E a questo proposito: di che guayabo soffrite da questa parte del fiume? 5 Varietà di banana che viene affettata per poi friggerla. Nei paesi del tropico si usa al posto del pane o come contorno. |